Perché Gabriele Nunzio Scibetta non sia un artista largamente conosciuto è un mistero, ma capita ai grandi maestri, quelli autentici, in vita. La sua arte, in linea con le grandi correnti del novecento, originale, filosofica, definita, denuda un pensiero profondissimo, fuori dagli schemi.
L’osservatore rimane decisamente stupefatto, avido di sapere cosa ci sia dietro forme e personaggi arcani, i quali riflettono un pensiero, una sensibilità verso l’universo, un modo di trattare le emozioni assolutamente unico. Non c’è provincialismo nell’opera di Gabriele Nunzio Scibetta, originario di Rombiolo, men che meno manierismo o adeguamento a forme già viste: sapeva perfettamente dove volesse arrivare, cosa attraversava la sua ricca mente, quale fosse il suo manifesto.
Peccato sia morto prematuramente all’età di 67 anni, perché chi vi scrive avrebbe voluto fargli tante domande. Si legge dietro una sua opera astratta: «Ho spesso immaginato il mostro del sonno con una opprimente e gigantesca testa, con un corpo filiforme, tenuto in equilibrio da due stampelle. Quando queste stampelle si rompono, noi abbiamo la sensazione di cadere». E ancora nelle sue carte annotava: «Quando tutti nel mondo comprendono che la bellezza è buona, allora esiste la bruttezza. Di conseguenza, il saggio fa il suo lavoro senza azione e dà il suo insegnamento senza parola».
La storia
Gabriele Nunzio Scibetta era nato nel novembre del 1955 ed è morto nel luglio 2021. Abbiamo parlato di lui con il figlio Thony, che ci ha raccontato: «Mio padre era un insegnante e per molto tempo ha lavorato nel crotonese, per cui trascorreva la settimana lontano da casa. Aveva due profili: era un artista riservatissimo, sfuggente e con noi un padre affettuoso.
Possedeva uno studiolo nella casa natale, qui a Rombiolo, e uno nel crotonese. Nel corso della sua carriera ha realizzato anche opere religiose su commissione. Andava a periodi, come tutti gli artisti: tra gli anni settanta e ottanta ha sperimentato l’astrattismo, in un linguaggio assolutamente particolare.
Era un uomo con idee solo sue e io credo che in quelle opere ci fosse il suo mondo, la sua personalità. Grande appassionato di Dalì. Non era esibizionista, non voleva assolutamente apparire, molto spesso regalava le pitture. L’ultima sua opera probabilmente è stata il casco della mia moto, dove ha rappresentato il Covid. Era specializzato anche nelle litografie e ci lavorava con matita e penna».
La voce degli altri
Gabriele Nunzio Scibetta è stato anche un maestro di tecniche, nella brochure di una mostra si legge: «Si muove agilmente tra stili e tecniche, dalla pennellata delicata del realismo, alla libera espressione dell’astrattismo. Ogni pennellata è carica di energia e intenzione». Scibetta riusciva a coniugare razionale e irrazionale, un sincretismo tra visto e pensato. Affermava Timothi Daco: «Ha analizzato con impressionante esattezza, quasi un voyeur un poco disgustato di se stesso, l’origine di timori, desideri umani e il bisogno di assecondarli come giochi degli altri».
Una arte che non è antropocentrica, ma come ha, giustamente, definito Daco è «paranoicentrica». «Scibetta dipinge – continua Daco – con meticolosa ossessione deliri, che si distinguono per il loro realismo allucinante. Parole e forme sono rappresentazioni dell’unica immagine originale e importante in assoluto cioè, quella mentale». Un artista la cui sostanza è dirompente, psicanalista e profetica.