Ogni tanto le Province provano a riemergere dalla condizione impropria di istituzioni di serie B e a sollecitare l’attenzione delle forze politiche che pure, nella stragrande maggioranza dei casi, sarebbero in teoria favorevoli a un loro rilancio. Ma da oltre dieci anni, a parte periodici sussulti, la situazione non si riesce a sbloccare.

Graziate dal fallimento della grande riforma renziana (che ne prevedeva l’abolizione), le Province sono rimaste nel limbo della legge Del Rio che nelle intenzioni doveva regolare la fase di transizione e che invece è diventata l’ennesima incompiuta. Di “transizione interrotta” aveva parlato il presidente Mattarella in un discorso all’Unione delle Province nel 2023. E aveva aggiunto: ci sono “vuoti e incertezze che non possono prolungarsi, rischiando che cittadini e comunità paghino il prezzo di servizi inadeguati, di competenze incerte, di lacune nelle funzioni di indirizzo e di coordinamento”.
Purtroppo siamo ancora lì. Le Province sono scritte nella Costituzione e per cancellarle servirebbe l’apposita procedura di revisione della Carta. In assenza di questo passaggio si è cercato di rimediare riducendo ai minimi termini i finanziamenti e abolendo l’elezione diretta dei vertici, che attualmente sono nominati dai Comuni.
Finanziamenti e assetti istituzionali restano quindi i due nodi fondamentali da sciogliere per degli enti che hanno conservato competenze importanti e concrete, dalle strade all’edilizia scolastica, dalla formazione professionale all’ambiente. In questi giorni è proprio sui fondi per la manutenzione delle strade che si è accesa una polemica di notevole asprezza.
Sotto accusa sono i tagli che inciderebbero anche su opere già avviate e che servirebbero per di più a finanziare iniziative controverse come il Ponte sullo Stretto. In Parlamento sono insorte le opposizioni, ma le proteste hanno trovato spazio anche tra gli amministratori locali vicini alla maggioranza perché le esigenze dei territori sono per definizione trasversali. La tesi difensiva è che non si tratterebbe in realtà di veri e propri tagli, ma di una nuova forma di rendicontazione.
Contemporaneamente si è rimesso in moto anche il versante delle istituzioni. Martedì scorso, infatti, il Senato ha approvato il disegno di legge che modifica lo Statuto del Friuli-Venezia Giulia e reintroduce le Province in quella Regione.
A ottobre il ddl era passato alla Camera e ora i due rami del Parlamento (si tratta di una legge costituzionale) dovranno effettuare una seconda delibera conforme. Ma che senso ha reintrodurre l’elezione diretta in una sola Regione? Il rischio è che si continui a procedere in modo disordinato soltanto per venire incontro alle esigenze di pezzi di ceto politico. Ben venga una riforma organica e condivisa (almeno questa!) che restituisca un ruolo pieno a un’istituzione che storicamente i cittadini percepiscono come legata al loro territorio.
Ma che non diventi un pretesto per moltiplicare le poltrone. Servono competenze chiare, aggiornate, con risorse corrispondenti alle funzioni. L’elezione diretta dei vertici dev’essere il coronamento di questo processo e non il suo punto di partenza.





























