In una fantastica cornice di emozione e partecipazione, Stefano Tacconi, grande ex portiere della Juventus e della Nazionale italiana, con gli occhi lucidi ha raccontato la sua “doppia” vita: quella sul campo vincendo ogni titolo con la Juventus e il coraggio e la determinazione con cui ha affrontato la partita più difficile della sua vita, dopo l’aneurisma che lo ha colpito nel 2022.
Ad accoglierlo a Spilinga, per la presentazione del suo libro “L’arte di parare”, insieme al pubblico delle grandi occasioni, il sindaco Enzo Marasco, insieme a tutti gli amministratori comunali, rappresentanti delle associazioni locali e i giovani sportivi del territorio.
La forza d’animo e la rinascita
Il sindaco Marasco, nel suo saluto iniziale, ha evidenziato come l’incontro «rappresenti un segno di vicinanza e di ispirazione per tutti coloro che affrontano momenti difficili, ricordando che la forza d’animo è la chiave di ogni rinascita. Siamo onorati ad avere un ospite di questo calibro a Spilinga, proprio perché Tacconi è un campione sportivo ma anche di umanità. L’arte di parare non è soltanto un’autobiografia sportiva, ma un libro che ci ricorda quanto sia preziosa la vita e la determinazione nel superare le difficoltà».
Tacconi, con la sua consueta schiettezza e ironia, ha poi ripercorso le tappe più intense della sua carriera e della sua vita personale, alternando ricordi sportivi e riflessioni profonde sul valore del coraggio e della resilienza. A moderare l’incontro, con un’intervista a tutto campo di seguito riproposta, il giornalista Gianluca Prestia.
Nel tuo libro, “L’arte di parare”, dai al verbo “parare” un significato nuovo. Cosa vuol dire oggi per te?
«Parare oggi è resistere. Resistere alle difficoltà, alla malattia, alla paura. Ogni giorno, dopo l’aneurisma, era una parata nuova. Ma come facevo in campo, non ho mollato mai».
Nel libro racconti il 23 aprile 2022 come il giorno che ha diviso la tua vita in due tempi. Com’è stato tornare a vivere?
«Non ricordo il momento in cui è successo, ma ricordo tutto quello che è venuto dopo: la riabilitazione, la fatica, la paura, ma anche la speranza. Ogni passo era una vittoria. Oggi sono qui per dire che non è mai finita, finché c’è voglia di lottare».
Nel libro parli molto della tua famiglia. Quanto è stata importante per te?
«La mia squadra più forte. Senza Laura e i miei figli non ce l’avrei fatta. Mi hanno spronato, aiutato e, quando serviva, rimesso in riga. La famiglia è la vera difesa della vita».
Scrivere “L’arte di parare” ti ha aiutato a guarire?
«Sì, è stato come fare terapia. Scrivere mi ha costretto a guardarmi dentro, a capire cosa contava davvero. Quando ho chiuso il libro, ho pensato: “Anche questa l’ho parata”».
Torniamo alla parte sportiva. Partiamo da un ricordo che tutti abbiamo nel cuore: Italia ’90. Molti tifosi si chiedono ancora se, nella sfida contro l’Argentina, potevi essere tu l’uomo giusto per i rigori.
«Eh, quella è una domanda che mi fanno da trent’anni… Dico la verità: in quel momento mi sentivo più forte di Zenga. Non per presunzione, ma perché stavo bene, mi allenavo forte. Ma Zenga era il titolare e il mister fece la sua scelta. Nel calcio bisogna anche accettare. Però sì, sentivo che quella era la mia partita».
Hai scelto la Juventus in un momento in cui aleggiava ancora il mito di Dino Zoff. Non era una sfida semplice: cosa ti spinse a dire sì?
«Quando la Juve chiama, non si dice mai di no. Sapevo che entravo nello spogliatoio dove era passato un monumento come Zoff, e all’inizio non fu facile. Ma ho sempre avuto carattere: mi sono guadagnato il rispetto con le mani e con la testa. Zoff era calma e saggezza, io istinto e rabbia agonistica, due modi diversi di essere numeri uno, ma entrambi veri».
In tanti si sono chiesti perché non sei rimasto nel calcio come allenatore o dirigente.
«Perché non volevo essere una comparsa. Oggi il calcio è cambiato, è troppo immagine, troppa politica. Io sono sempre stato autentico, anche quando questo dava fastidio. Meglio restare fuori, ma restare sé stessi».
Che messaggio vuoi lasciare ai giovani?
«Allenate la testa, non solo i muscoli. La vita è piena di tiri improvvisi. Non li puoi parare tutti, ma puoi sempre rialzarti. Il vero successo non è vincere: è non smettere mai di provarci».
Nel corso della serata è intervenuto anche il vicesindaco Franco Barbalace, che ha sottolineato il valore umano e sociale dell’evento: «Con incontri come questo vogliamo offrire un messaggio di speranza e incoraggiamento a chi vive momenti difficili, ai giovani, alle famiglie, agli anziani. Stefano Tacconi è un esempio di forza e rinascita, e attraverso la sua testimonianza portiamo avanti lo stesso spirito che guida i nostri progetti sociali a Spilinga: vicinanza, sostegno e comunità. Lo sport, come la vita, ci insegna che cadere non è fallire, ma solo una parte del cammino».
L’incontro si è concluso tra applausi e commozione. Tacconi si è intrattenuto a lungo con il pubblico, concedendo foto e autografi a tutti. I momenti più emozionanti sono stati quelli con un gruppo di bambini, che, indossando la maglia bianconera della Juventus, hanno scattato foto sorridenti accanto al loro idolo. Una serata di sport, umanità e speranza che resterà nel cuore della comunità di Spilinga, perché, come ha detto lo stesso Tacconi, «la vita non è una partita da vincere, ma una da giocare fino all’ultimo minuto».







































