Tre vite, fuori dagli schemi, voci originali e interessanti, capaci di raccontare il verbo esistere da angolature inedite. Un vicentino, Baba Shiva, che è scappato insieme a un amico e hanno raggiunto l’India con un furgoncino, l’hanno girata in lungo e in largo e alla fine, dopo molti anni, lui è diventato un sacerdote induista; un veneto, Iris, che ha vissuto da nomade, divenendo poi il costruttore di un villaggio in Himalaya, pur avendo la terza media e, infine, un quattordicenne piemontese, Baba Giorgio, che ha raggiunto nel 1975 l’India praticamente a piedi, perché animato da voci interiori.
Storie incredibili che hanno portato tra il pubblico di Casa Berto, a Capo Vaticano, nella penultima serata del family festival, una folata di curiosità. Durante la proiezione del documentario, uscito nel 2014 per la regia di Niccolò Ammaniti, nel mentre i protagonisti raccontavano i loro percorsi, con grande naturalezza, si sentiva un vociare basso: «E chissà la madre… Quando non lo ha ritrovato. Che poi rivedere il figlio dopo venticinque anni, ti immagini cosa possa aver sentito?…». Un tuffo in un vivere straordinario, lontano da profitto, performance, carriere, liturgie capitaliste, ritornelli conformisti.
I Personaggi
Fisionomie diverse, uomini morfologicamente differenti, accomunati da una impavidità estrema, dalla capacità di partire senza calcolare né ragionare, in assenza di punti e pensieri fermi.
Un aperto e movimentato divenire, come il vento, similitudine che ha utilizza Baba Giorgio, quando si manifesta imperioso e passionale. Il mondo, lontano da casa, li ha accolti nella loro essenza, senza cercare di smussarli, adeguarli, contaminarli. Di tutti, Baba Shiva è la voce più lineare, un ottimo narratore di se stesso; Iris è apparso duro, granitico, antidemocratico proclamato, ma dotato di una intraprendenza nomade e veneta allo stesso tempo.
Emotivamente forte la storia dell’ultimo protagonista, Baba Giorgio, ironico e tenero, fuggiasco, ingestibile, scappato di casa ragazzino, perché sentiva il richiamo del suo destino. Al telefono, ormai sacerdote induista, chiamava la mamma, che non aveva visto né sentito per decenni, «amore mio», con un italiano permeato di dizione estera e un ritorno di voce estremamente carezzevole. Vivere è tante sfumature e una infinità di declinazioni.
Il fenomeno migratorio verso l’India
Una migrazione non economica che l’Italia ha vissuto, come altri paesi europei, sull’onda della cultura hippy. Fenomeno che ha raccontato molto bene Niccolò Ammaniti alla fine della proiezione, insieme a Emanuele Trevi. Tanti giovani italiani negli anni settanta sono partiti per l’India, con furgoncini, bus, la gran parte hanno fatto ritorno, ma alcuni sono rimasti.
L’India li accoglieva senza giudizio, con libertà, la stessa che cercavano lontano da gerarchie, percorsi tracciati, ambienti chiusi, aspettative. Il viaggio in India, che dall’Europa si conosceva pochissimo e male, rappresentava una prova, una avventura dimostrativa. Il documentario di Ammaniti è del 2014 e oggi i tre protagonisti sono morti.
Le persone di quella migrazione, che hanno poi deciso di rimanere in India, non ci sono più e il paese, come hanno raccontato Trevi e Ammaniti, reduci di recente da un viaggio insieme, è molto cambiato.
Sarti di testimonianze
Il pubblico di Casa Berto ha dimostrato un grande interesse per “The Good Life”, ci sono state diverse domande e osservazioni, a riprova di quanto bisogno ci sia di racconti, testimonianze e, ovviamente, di qualcuno che li sappia cucire, rifinire. Le vite degli altri sono riflesso, liberazione e una lenta d’ingrandimento su noi stessi.

























