Disastri naturali e calamità ambientali: basta concentrarsi sugli effetti devastanti, spazio alle opportunità di rinascita e rinnovamento. Un articolo scientifico appena pubblicato da Carla Fernández Martínez dell’Università di Oviedo su Imafronte (rivista del dipartimento di Storia dell’arte dell’Università di Murcia) ha scelto di indagarne le occasioni di ripianificazione urbana, correttive talvolta degli errori commessi in passato. Uno dei casi studio presi in esame è quello dell’ondata sismica calabrese risalente al 1783, quando intere città furono rifondate alla luce del pensiero illuminista. Terremoto come stimolo per attivare risposte innovative nei processi di ricostruzione urbana, sociale ed economica.
Sotto esame le fonti primarie
La scienziata ha approfondito relazioni stilate all’epoca, lettere personali e notizie diffuse sulla stampa, non tralasciando la storiografia. Fin dall’antichità la Calabria è colpita da imponenti movimenti della terra, documentati nelle cronache: è una fra le regioni italiane a più alto rischio sismico. L’abbandono dei centri situati nell’entroterra è stato una costante nel corso della Storia, il che ha comportato lo spopolamento degli assetti urbani e la scomparsa di intere comunità.
Quello iniziato il 5 febbraio 1783 fu uno dei periodi tellurici più lunghi e disastrosi del nostro Paese; da allora fino al 28 marzo si verificarono cinque forti terremoti, i quali interessarono gran parte di Calabria e Sicilia nord-orientale. Gli ambienti naturali, a seguito dei violenti movimenti, subirono notevoli cambiamenti, tantoché celebri geologi contemporanei parlarono di “rivoluzione della natura”. Le stime ufficiali consideravano quasi 30.000 vittime nella sola punta dello Stivale, ma in realtà la sequenza non si interruppe nei successivi tre anni. Con 182 città completamente distrutte, in pratica andò perduto tutto il patrimonio storico, artistico e popolare.
La reazione e il programma del Governo borbonico
Il Governo borbonico, in reazione alla catastrofe, era intenzionato a non limitarsi al mero recupero, bensì a ideare un programma più ampio per affrontare e risolvere le questioni secolari che attanagliavano quei luoghi. Si scatenò un vivace dibattito che coinvolse politici e intellettuali: si distinse il calabrese Michele Torcia, che voleva approfittarne per abolire il potere dei baroni e sopprimere i beni ecclesiastici.
Parola d’ordine era “modernizzazione”, non si tolleravano ormai superstizione e ignoranza, né il potere vaticano o il sistema feudale. Il retaggio del passato doveva lasciare campo libero a nuove forme di organizzazione sociale, impostate con una distribuzione razionale delle risorse. Il progetto prevedeva il miglioramento dell’agricoltura e lo sviluppo dell’industria manifatturiera. E, per le popolazioni dispersesi e trasferitesi in località temporanee, si avviò un altro acceso dibattito: come reinserirle nei paesi devastati?
Ma la vera novità fu costituita dalle città ricostruite daccapo, con schemi urbanistici basati sui modelli teorici in voga, privilegiando progetti ortogonali dalla forma geometrica chiusa, insieme con strade regolari, assi di simmetria e disegni che enfatizzavano gli effetti prospettici. Gli architetti coinvolti erano in genere ingegneri militari, con le eccezioni di Ermenegildo Sintes e Vincenzo Ferraresi. Al primo è attribuita unicamente la pianta di Tropea, nonostante abbia elaborato tanti altri piani; il secondo propose un modello di casa antisismica con struttura in legno. L’architettura aveva così smesso di essere libera invenzione artistica, mutandosi in risultato razionale di un procedimento metodologico. La modernità era alle porte.