L’estate della politica italiana è stata caratterizzata, tra gli altri temi, dalla raccolta firme per il referendum abrogativo della Legge 26 giugno 2024, che contiene le disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. L’istituto del referendum è espressione di democrazia e di partecipazione dei cittadini e quindi va sempre visto con favore. Nel caso specifico, prescindendo dalle posizioni assunte dalle varie parti, è auspicabile però un maggior confronto sul merito delle questioni in discussione, che vada oltre gli schieramenti di parte come finora è avvenuto.
Le dichiarazioni di Giovanni Maria Flick
Emergono questioni giuridiche molto rilevanti e, ancora di più, visioni diverse sul nostro ordinamento costituzionale. Illuminanti al riguardo le dichiarazioni del presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, quale presidente del comitato per i referendum contro l’autonomia differenziata. In una recente intervista ha affermato che “la posta in gioco è quella di salvaguardare la Costituzione di fronte a una prospettiva di riforma che minaccia di sconvolgere completamente il tessuto costituzionale”.
“Ho accettato l’incarico perché credo profondamente nella Costituzione, nella sua validità, ci ha dato 75 anni di libertà e di progresso. È profondamente attuale, anche se deve essere ritoccata; in alcuni punti è stata attuata male, come quando nel 2000 si è cercato di introdurre una riforma concettualmente sbagliata che adesso viene utilizzata per portare avanti l’autonomia differenziata, con l’introduzione di un federalismo competitivo e non solidale come lo vede la Costituzione nell’articolo cinque in cui si parla dell’unità e indivisibilità della Repubblica e del favore per il decentramento”, ha affernati.

Dunque, secondo Flick, il vero obiettivo è l’attuale Titolo V della Costituzione che, a suo dire, si porrebbe in contraddizione con uno dei principi fondamentali della Carta (articolo 5) e che dunque “mette in pericolo la sopravvivenza della Costituzione nella sua interezza”. L’attenzione va su questi aspetti. La cosiddetta Legge Calderoli sull’autonomia differenziata, di cui i promotori chiedono l’abrogazione, è una legge di procedura, non di merito, che detta le disposizioni attuative di una norma costituzionale. Criticabile per molti aspetti, tuttavia sembra riduttivo e improprio chiedere al popolo di esprimersi su una norma attuativa che, peraltro, si limita a regolamentare le procedure da seguire senza disposizioni di merito innovative o di immediata applicazione.
La riforma del Titolo V
Se invece è in discussione la norma costituzionale sulla concessione di particolari forme di autonomia alle Regioni, lo strumento non può essere il referendum abrogativo della legge di attuazione, il cui eventuale esito favorevole avrebbe come effetto solo di lasciare inattuata una norma costituzionale vigente da 23 anni, ma mantenendo l’attuale assetto ordinamentale. È bene ricordare che la riforma del titolo V del 2001, che ha introdotto la cosiddetta autonomia differenziata, è stato oggetto del primo referendum costituzionale della storia repubblicana, che si tenne il 7 ottobre, e che vide la prevalenza dei sì col 64,2% dei voti pari a 10.433.574 elettori.
Sostituire un sistema fortemente accentrato, tipico dell’Italia pre-repubblicana
Per riformare l’articolo 116, se si vuole farlo, c’è la procedura stabilita dalla Carta stessa, all’articolo 138, non l’adozione di forme surrettizie, finalizzate più a ricercare consenso elettorale, ma con il forte rischio di alimentare divisioni e tensioni. È giunto il momento di un dibattito serio sulle Autonomie, necessario nel nostro Paese, superando convenienze e logiche di schieramento. E, soprattutto, senza prescindere dai principi fondamentali della Costituzione, in questo caso dall’articolo 5, “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali…”.
Dai lavori preparatori e dal dibattito in assemblea costituente, emerge chiaramente la volontà di sostituire il sistema fortemente accentrato, tipico dell’Italia pre-repubblicana e in particolar modo dell’epoca fascista, con il decentramento di competenze e funzioni a livello locale, nella consapevolezza di una maggior prossimità degli enti territoriali alle istanze collettive e confidando quindi in una più agevole ed efficiente organizzazione istituzionale. La Costituzione parla di “riconoscimento”, a sottolineare che le autonomie locali – Comuni e Province – sono preesistenti alla Costituzione e alla stessa Repubblica, che una volta costituita, una e indivisibile, è chiamata rapportarsi con esse e di “promozione” delle stesse, dichiarando l’impegno della Repubblica affinché possano regolarmente operare e realizzarsi, nell’interesse del Paese. Una scelta che si completa con l’istituzione delle Regioni.
Il pensiero di De Gasperi
Ricordando il pensiero di De Gasperi nel 70esimo anniversario dalla morte, l’autonomia è al tempo stesso condizione che preesiste al potere e principio di organizzazione del potere stesso (articolo 5 della Costituzione); e forma di vita collettiva e prima ancora mezzo di valorizzazione della persona (articolo 2 della Costituzione); e riconoscimento di differenza e insieme relazione con altre differenze (articolo 3, comma 2, della Costituzione).
Divide il potere, promuove la partecipazione, potenzia le responsabilità; esige coesione. L’autonomia è per De Gasperi innanzitutto espressione della “fiducia nel popolo ad amministrarsi da sé», e si innesta, come è evidente, nella questione più ampia della democrazia, che tanto gli stava a cuore. L’autonomia, scriveva, è «la migliore amministrazione possibile fatta tutta per il popolo e più che possibile per mezzo del popolo stesso”.
Sull’attuazione solo parziale di tali principi dovrebbe concentrarsi il dibattito per conoscere il disegno e gli obiettivi delle varie forze politiche, a partire dall’aggiornamento del testo unico degli Enti Locali, dal superamento della Legge Delrio sulle Province e dal ruolo delle Regioni. Sarebbe inaccettabile che, per convenienza del momento, alimentando paure o rischi immotivati, si voglia abbandonare la strada dell’autonomia in favore di una nuova stagione di centralismo. Quel centralismo da cui derivano gli squilibri territoriali nel nostro Paese, primo argomento dei promotori del referendum, che certamente non sono stati determinati dall’autonomia differenziata, che ad oggi non esiste.