La morfologia del patriarcato, con i suoi efferati colpi di coda: sistema di potere più debole rispetto al passato e per questo, in taluni casi, anche più pericoloso e crudele, che quotidianamente si pone al centro della discussione pubblica. E se lo scenario nazionale appare preoccupante e problematico, quello provinciale è ancor più difficile da trattare. È un tema sul quale dovremmo riflettere molto, a prescindere da ogni retorica, celebrazione o enfasi di giornata.
Radicamento, definizione e sfumature del patriarcato si sposano con l’antropologia dei luoghi, le abitudini affettive, la gerarchizzazione sociale, la struttura e composizione dello stare insieme. Quello che amiamo “amore” è per molti aspetti un costrutto sociale con una dimensione collettiva: in una persona sopravvivono le voci di intere generazioni, siamo niente altro che il prodotto di tutti i traumi storici. E più il contorno è familiare, più per una donna è difficile prendere le distanze, razionalizzare, parlare. Abbiamo affrontato questo tema con tre avvocati, Stefania Figliuzzi, presidente di “Attivamente Coinvolte”, attivista di lungo corso; Valeria Cortese, che nella sua carriera più volte si è occupata di divorzi e separazioni complesse, e Giusi Fanelli, presidente della Commissione pari opportunità del tribunale di Vibo Valentia. E con tutte e tre abbiamo tracciato un solco interessante.
Il racconto di Stefania Figliuzzi, uno spaccato tra numeri e osservazioni

«La provincia di Vibo è segnalata come zona rossa. Al mio Centro arrivano in un anno circa una ottantina di chiamate, c’è anche tanto sommerso, questo va detto. Assistiamo ad un fenomeno apparentemente strano negli ultimi tempi: con la storia di Giulia Cechettin si è registrato un picco massimo, ci chiamavano a tutte le ore, adesso c’è una diminuzione. Le donne chiamano per supporto legale e psicologico, spesso non hanno un posto dove andare. “Attivamente Coinvolte” ha 50 protocolli di servizio in 50 paesi calabresi. Abbiamo siglato con il Comune di Pizzo un accordo fondamentale per avere appartamenti da adibire a case emergenziali, perché i posti letti in Calabria sono pochi. Quando le donne mi chiamano durante la notte, spesso si pone il problema della disponibilità: non sappiamo dove mandarle. Il sommerso in questa provincia è un altro dilemma, chiaramente se è sommerso non possiamo quantificare, ma si deduce spesso dai discorsi delle vittime la riluttanza, la fatica a denunciare».
Le donne – aggiunge l’avvocato – che non denunciano «lo fanno per mancanza di consapevolezza, perché non c’è una cultura solida. Nel 2023 le chiamate al 1523 in Calabria sono state 850, nel primo e secondo semestre del 2024 sono state 450. Delle circa 80 chiamate che arrivano al mio Centro, da tutta la regione, ne prendiamo in carico, grossomodo, una cinquantina, le restanti vogliono solo informazioni. Il target di età va dalle giovanissime sino alle donne di 70 anni. Si è impennato il numero delle ragazze giovani, sui 18 anni, che denunciano stupri, abusi. Sono persone che vogliono denunciare e avere un supporto psicologico. La provincia di Vibo è patriarcale, possiede un tessuto criminale importante e questo incide: quando io prendo in carica una donna devo fare una valutazione del rischio, facendo domande specifiche sul contorno di familiari e amici che circondano il marito, passaggio fondamentale in provincia di Vibo, qui la valutazione deve essere certosina. Stereotipi, codici, giudizi, convinzioni, sono ancora permeanti da noi, ne contraddistinguono il modo di pensare e di agire».
In Calabria – racconta sempre Stefania Figliuzzi – «ci sono centri, questa è un’altra criticità, che lavorano senza autorizzazioni, formazione, in modo non corretto e le donne subiscono una vittimizzazione secondaria, si devastano. Stiamo lavorando molto nelle scuole materne a livello nazionale, io faccio parte anche di D.i.Re, e parliamo ai bambini di libertà di scelta. Con la Regione Calabria, invece, andiamo nelle scuole elementari e medie per sensibilizzare al rispetto. Nelle scuole superiori ci siamo con il progetto “Ti meriti un amore”, perché ci siamo accorti che i ragazzi non sono educati ai sentimenti, alle emozioni. Stiamo lavorando anche per la salute delle donne sul territorio con l’associazione “Dall’ostetrica”, per parlare dei problemi fisici delle donne dalla prima mestruazione alla menopausa. Un modo per creare contatti e magari promuovere in futuro spazi di lettura e riflessioni, serve fiducia».
Valeria Cortese: «Le donne si fermano spesso ai sensi di colpa»

«C’è stato un periodo verso il 2018–2020 – spiega Valeria Cortese – nel quale mi occupavo tantissimo di separazioni e divorzi, era un lavoro immensamente faticoso: vedevo tante cose che da donna non riuscivo a mandare giù. Ho conosciuto lavoratrici, costrette ad un certo punto ad abbandonare il lavoro per la cura dei figli: subivano una forte pressione psicologica da parte di ex mariti, compagni, la prole diventata oggetto di ricatto, di una violenza psicologica subdola, di una forma di controllo maniacale. Questi ex incominciavano con una pressione a tamburo battente: telefonate continue, pedinamenti e finivano per sfinire le partner e originare una rabbia irrazionale. C’erano giorni in cui le mie clienti mi chiamavano furibonde, cercando uno sfogo più che un consulto legale: perché provenivano da ambienti isolati; atri giorni in cui prevaleva la paura».
Valeria Cortese sottolinea poi che «i sentimenti erano molto altalenanti, gli umori fragili, i pensieri labili. Ho visto donne laureate – spiega Valeria Cortese – che hanno rinunciato a vivere per timore. Le donne all’interno di contesti difficili sono spesso ermetiche: non si aprono, non accettano, d’altronde, in ambienti patriarcali si cresce. Tuttavia, oggi si parla: le scuole sono attive anche da noi, la parità di genere si studia, è diventata una lezione, questo genera consapevolezza. E la differenza generazionale si incomincia a vedere. Quando trattavo questi casi con frequenza mi confrontavo con colleghi di altri fori: le situazioni erano simili, casi delicati, su una soglia. Ciò nonostante, nella provincia di Vibo Valentia il contesto è più complesso: per via dei contorni di amici e familiari che circuiscono le vittima».
Giusi Fanelli: «In provincia di Vibo si denuncia di meno, perché si è più sole»

«Io posso parlare da presidente del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Vibo Valentia e, in virtù di questa carica -fa presente Giusi Fanelli -, lavoro attivamente per far conoscere le politiche delle pari opportunità. Il territorio calabrese, e nella fattispecie vibonese, presenta una debolezza nella dialettica familiare, data anche dalla sofferenza economica, che porta ad una sofferenza emotiva, culturale. È una debolezza che spesso si trasforma in violenza. Le denunce nella provincia di Vibo sono molto poche rispetto alle situazioni che esistono: su 10 casi di violenza 8 non sono dichiarate, perché per arrivare alla denuncia devi essere circondato da empatia, da sicurezza.
A parere della fanelli, «se non trovi sicurezza negli strumenti di contorno, non hai la forza necessaria per fare il passo. Una donna qui da noi, talvolta, non denuncia per non mettere in discussione la famiglia, per paura di essere chiacchierata e giudicata, perché agli occhi degli altri cadrebbe il mito della famiglia perbene. Serve educazione e sensibilizzazione per spingere le donne a denunciare. Ed è necessario non girarsi dall’altra parte: dove c’è apatia le donne – vittime fanno fatica ad uscire, a raccontarsi. Noi addetti ai lavori ci accorgiamo che le vittime hanno veramente tanta paura e questo porta a non avere considerazione della propria identità. Il legame principale tra vittima e carnefice, in molti casi, è di natura economica: la disoccupazione femminile è altissima, certamente manca il lavoro, ma il deficit culturale esiste e crea una disfunzionalità a catena, l’autostima sociale e lavorativa delle donne è bassa. Se ne esce con confronti, dialoghi, spazi pubblici, momenti di crescita condivisi».
Un grande e delicato e più che mai attuale tema, dunque, che abbiamo provato a raccontare con gli occhi di tre professioniste, resta molto da fare su un fronte culturale, per quanto possa sembrare una frase fatta: è necessario lavorare sulle parole, le prime, quelle dei bambini appena iniziano ad emettere suoni, perché quello è il momento di costruzione della civiltà. Insegnare ai piccoli, ancor prima del debutto in società, che amare non significa lottizzare.