In Calabria, vivere è un buon esercizio di sopravvivenza. Tutto qui è più difficile. Anche essere calabresi. Quelli che si scelgono, non quelli affetti da calabritudine.
Eppure, la Calabria è bellissima. Una bellezza che non ci appartiene: ce l’ha donata lo Spirito Santo, forse senza conoscere il regno della malanima.
È struggente, ma molti la svuotano, come sanguisughe su un corpo stanco. Ma saranno eterni il sole e il mare? Se finissero, cosa resterebbe? La calabritudine ci salverà? Riusciremo a raccontare qualcosa di noi ai posteri?

Già oggi, fatichiamo a parlare con i nostri figli. Figuriamoci con la Storia. Quaggiù non manca nulla: né il bello né il brutto. Ma domina l’assuefazione, più infame della rassegnazione: non urla, non lotta. Scrive solo finali.
Eppure c’è chi resiste, chi spera. E chi si illude. Caino vuole ancora la sua città del sole, ma sulla pelle di Abele. Intanto, la soldanella aspetta Ulisse tra le dune. Ma qui, “Betta non fila più”. Le madri partoriscono in cattività. E per salvare i figli li mandano al Nord.
C’è chi resta. Chi lavora. Chi denuncia e per questo rinuncia a tutto. Penso a Nino De Masi, che con l’esercito davanti le sue aziende, ancora dice: “Favuriti!” Favuriti voi, che potete godere di questa Calabria che si fa pane e si fa vino.
La Calabria è una magara: se ti ama, ti benedice. Se ti rifiuta, ti maledice. E noi? Siamo pieni di alibi. Il più comodo? La ’ndrangheta. Ma la verità è che non la combattiamo. Ci atteggiamo compari.
E la vergogna? Chi la sente? I poveri, i pastori, i politici? Non c’è un palmo di netto. E u megghiu avi a rugna. Le voci ci sono. Ma troppe se la cantano e se la suonano. E stonano. Anche nel coro della Chiesa, alle feste patronali.
Siamo falsi. Sopportiamo i soprusi. Accettiamo le repressioni. Che stolti! Antonello dell’Argirò si ribellò, e alla giustizia chiese: “Dov’eri prima?”. Ma davvero nessuno ha un fatto proprio da raccontare? Se comincio io, non finisco prima di domani.