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Home Cultura

“Chi ha rapito Cesare Pavese?”, il nuovo romanzo di Francesco Bova

Edito da Meligrana, casa editrice di Tropea, insieme alla veneta Priamo, sarà presentato a Milano giovedì 13 novembre

Di Redazione
11 Novembre 2025
in Cultura
L'autore Francesco Bova e la copertina del libro "Chi ha rapito Cesare Pavese?"

Con il suo nuovo romanzo, “Chi ha rapito Cesare Pavese?”, Francesco Bova dà vita a una storia di muse e scritture, il cui coprotagonista è Cesare Pavese, fulcro centrale di una serie di viaggi e dialoghi che molto hanno a che fare con il realismo magico. La sua opera è edita da Meligrana, casa editrice di Tropea, insieme alla veneta Priamo.

Il romanzo intreccia mistero, riflessione letteraria e gioco metanarrativo: il protagonista (“Lui”) e una voce narrante femminile (“Io, la sua Voce dalle belle gambe”) si ritrovano in una stazioncina ferroviaria abbandonata dei primi anni ’80, con l’obiettivo di “ritrovare a qualunque costo Cesare Pavese”. Ma il titolo stesso rovescia la domanda: chi ha rapito chi? L’autore si interroga se possa essere Pavese stesso – o piuttosto i suoi lettori, le sue amanti, gli editori – a “rapirlo”, ovvero a restare intrappolati nella sua opera e nel suo mito.

Il significato del “rapimento”

Così il romanzo diventa una riflessione sulla natura dell’ossessione letteraria e sul potere della scrittura di “rapire” la mente. Il romanzo si specchia nel suo oggetto – Pavese – e riflette sul rapporto tra autore scomparso e i vivi che lo studiano. Mette in scena vari “rapitori”: lettori, amanti, critici, ed esplora in che modo sono prigionieri dell’immagine di Pavese. Lo stesso incipit di “Chi ha rapito Cesare Pavese?” di Francesco Bova dischiude un panorama letterario che merita attenzione non tanto per quello che narra, quanto per come si è deciso di narrarlo.

Francesco Bova costruisce la propria voce narrativa attraverso una strategia di straniamento temporale che si manifesta già nella scelta lessicale: la «ferrata», arcaismo affettuoso per indicare la ferrovia, colloca il lettore in una dimensione sospesa, né completamente contemporanea né dichiaratamente nostalgica.
La bicicletta che apre il romanzo non è semplice mezzo di locomozione: è dispositivo ritmico. Bova orchestra la sintassi sulla cadenza della pedalata («Pedalò lungo il canale… Pedalò pensando…»), creando una prosa circolare, quasi ipnotica, dove l’anafora diventa metodo compositivo. La ripetizione non è ridondanza, ma insistenza fenomenologica: il gesto che si ripete scandisce il tempo interiore del personaggio, trasformando il viaggio fisico in deriva mentale.

L’impronta di Cesare Pavese

Particolarmente eloquente è il trattamento della descrizione paesaggistica. Le «stradine sterrate», le «risaie», i «campi di granoturco» non vengono esibiti come fondale pittoresco ma emergono attraverso il movimento, filtrati dall’esperienza corporea del protagonista. È una geografia che si fa strada dentro la scrittura anziché disporsi davanti a essa. Il «sole che non gli bruciò la pelle del viso che di sua era già nera» racchiude, in una sintassi colloquiale volutamente involuta, un’intera antropologia: la pelle scura diventa segno di appartenenza a un mondo contadino, ma anche traccia di un corpo che ha metabolizzato lo spazio attraverso la fatica.

L’innesto della lettera pavesiana («Vorrei rivederti per bere un buon bicchiere…») introduce una faglia nel tessuto narrativo: il registro si raffina improvvisamente, le parole si fanno «asciutte». Ed ecco che Bova dimostra la propria consapevolezza stilistica nel mettere in scena la voce dell’altro, l’eco di Pavese che penetra nel presente della storia. Non è citazionismo: è un gioco di specchi tra scritture, dove l’ombra dello scrittore suicida si proietta sulla pagina contemporanea modificandone la temperatura emotiva.

Non un interrogativo poliziesco

La sequenza milanese rivela poi un’attenzione quasi cinematografica al montaggio delle immagini: la Stazione Centrale diventa crocevia di destini e temporalità («Pensò ai meridionali che vent’anni prima…»), e qui Bova innesta una riflessione storico-sociale che non si congela in pamphlet ma si incarna nei dettagli materiali: le «valigie rigonfie, odoranti di fichi secchi e di povertà». L’olfatto come senso della memoria collettiva, l’odore come traccia indelebile di un’Italia che si trasforma. “Chi ha rapito Cesare Pavese?” non è un interrogativo poliziesco, ma filosofico. Il rapimento qui vuole essere metafora del rapporto tra lettore e autore, tra tradizione letteraria e necessità di reinvenzione. Bova sembra suggerire che ogni lettura autentica sia un sequestro: lo scrittore ci sottrae al presente, ci costringe dentro la sua lingua, ci rende complici.

La presenza di «Lui» e della «Voce dalle belle gambe» chiusi in una stazione ferroviaria disabitata configura uno spazio liminale, tipicamente modernista: il luogo della scrittura come rifugio e prigione insieme, dove l’atto creativo si consuma in una solitudine abitata da fantasmi letterari. La stazione – non a caso ferroviaria – diventa simbolo di transito perpetuo, di un’identità narrativa che non trova stasi, ma solo attraversamenti. Bova scrive, in definitiva, una prosa dell’inseguimento: insegue Pavese, insegue la propria voce, insegue un’Italia che cambia pelle. E lo fa con una lingua che sa essere popolare senza essere folkloristica, colta senza essere pretenziosa, affettuosa senza scivolare nel sentimentalismo. Una scrittura che pedala, potremmo dire, lungo i binari della memoria.

Il legame dell’autore con la Calabria

Francesco Bova (Pietra Ligure, 1953), scrittore e giornalista pubblicista, è stato per vent’anni uno degli animatori della rivista di filosofia e letteratura “Malvagia”. I suoi genitori, originari della Calabria, gli hanno trasmesso un forte amore per la regione, tant’è che lo stesso autore è molto legato a Tropea, la Perla del Tirreno. Attualmente collabora con sololibri.net. Ha pubblicato i romanzi: La leggenda dei pesci bambini (Perrone, 2005); Quando Chiara ha perduto la luce (Tabula Fati, 2013); Il regno di Nessuno e la bella Alessandra (Robin, 2016); L’albero delle zucche (Priamo-Meligrana, 2017); I Sognatori (Porto Seguro, 2020); Lo sceneggiatore (Priamo-Meligrana, 2021); Conversazioni con il portiere dei freaks (Solfanelli, 2023). Il romanzo sarà presentato a Milano giovedì 13 novembre ore 18.00 presso la Biblioteca Ostinata (via Osti 6) nell’ambito del Festival Letterario Milano Book City. Oltre all’autore saranno presenti Marcello Mazzoleni e Fabrizia Ferrari.

Tags: Francesco BovaLibri
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